Come giudica la situazione economica italiana?
Dal 2008, l’Italia ha perso quasi 10 punti di Pil e un quarto della produzione industriale, mentre il debito pubblico è aumentato di 30 punti percentuali. È in corso una debole ripresa dovuta ai fattori macroeconomici comuni a tutta l’euro-zona. Senza un intervento di sostegno alla domanda interna, in particolare investimenti pubblici, lo scenario rimane anemico, segnato da un’elevata disoccupazione e debito pubblico fermo all’elevato livello attuale (circa 130% del Pil).
Il britannico Tony Benn, della sinistra laburista, una volta disse che ‘democrazia’ vuol dire cacciare via coloro che ti dominano. L’Italia potrebbe liberarsi dell’austerità e del governo tedesco abbandonando l’euro?
L’uscita unilaterale dall’euro è pericolosa. Non trova il consenso dalla maggioranza dei cittadini, in particolare di sindacati e pensionati, forze fondamentali della sinistra. L’alternativa alla gabbia del liberismo della moneta unica è un Piano B, preparato con le forze della sinistra critica europea, per arrivare in modo cooperativo a un Sistema Monetario Europeo riformato, come proposto da Oskar Lafontaine.
Alcuni esponenti della sinistra europea sostengono che uscire dall’euro significherebbe solo assoggettarsi agli umori dei mercati finanziari o della Bundesbank piuttosto che della BCE. Lei è d’accordo ?
Non sono d’accordo. L’euro-exit non è un mero ritorno alla moneta nazionale, ma l’abbandono del liberismo mercantilista basato sulla svalutazione del lavoro. È la riacquisizione degli strumenti minimali della politica economica, innanzitutto l’accountability democratica della banca centrale nazionale. È l’aggiustamento del cambio rispetto alla compressione dei salari e dei tagli del welfare per compensare la svalutazione reale praticata dalla Germania e da altri. È il recupero di margini di manovra per le politiche di bilancio. Ovviamente, la rilevanza dei mercati finanziari rimane, specialmente per un Paese a elevato debito pubblico come l’Italia. Non si tornerebbe alla sovranità economica precedente la liberalizzazione dei movimenti di capitale. Ma avremmo almeno l’opportunità di rianimare la democrazia, oggi svuotata di significato, e la sinistra, oggi inevitabilmente prigioniera, come dimostra la sconfitta di Syriza.
La sinistra in Italia parla di un nuovo partito che possa riunirne le diverse anime. Si aspetta che questo possa attrarre i delusi della socialdemocrazia italiana così come i voti di protesta di quanti hanno voltato le spalle alle élite politiche italiane?
L’unità dei piccoli partiti della sinistra e dei dirigenti usciti dal Partito Democratico è condizione necessaria ma non sufficiente per costruire una sinistra di governo, attrattiva per gli elettori ex-Pd, andati in larghissima parte nell’astensione o, in misura limitata, al Movimento 5 Stelle. Oltre all’unità dobbiamo, attraverso un’ampia partecipazione popolare, definire una cultura politica e un programma innovativo, selezionare una classe dirigente rinnovata e adeguata. La sfida non è occupare un piccolo spazio alla sinistra del Pd, ma dare rappresentanza politica al variegato universo del lavoro.
Quale ruolo gioca l’euro nel dibattito all’interno della sinistra italiana e come pensa di poter colmare, nel nuovo partito, le divergenze su questo tema?
Il dibattito sull’euro è molto importante, specialmente dopo quanto avvenuto in Grecia. La definizione del Piano B come strumento per negoziare radicali cambiamenti nell’eurozona e nei Trattati può portarci a una proposta condivisa.
Le associazioni datoriali tedesche si battono per l’esclusione dal salario minimo dei rifugiati, in modo tale da potersi avvalere di manodopera a basso costo. Esiste anche in Italia un simile dibattito e come dovrebbe rispondere la sinistra secondo Lei?
Per ora in Italia nessuno l’ha proposto. Dobbiamo dire no. Scatenerebbe una guerra tra ultimi e penultimi e alimenterebbe i movimenti xenofobi e razzisti.
Stefano Fassina è un economista e parlamentare italiano. In passato ha lavorato per il Fondo Monetario Internazionale. È stato responsabile economico del Partito democratico tra il 2009 e il 2013, e vice-ministro dell’Economia e Finanze nel governo Letta, incarico da cui si è dimesso per disaccordo politico con il programma di riforme neoliberiste di Matteo Renzi. Nel giugno scorso ha deciso di lasciare il Partito democratico.
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