Lo show a Ventotene si è appena concluso. Temi decisivi: il quadro geopolitico ai confini dell’Unione europea; la sicurezza interna, i flussi migratori; la crescita economica. Valanghe di retorica sul rilancio degli ideali dei padri fondatori dell’Europa unita. Ma nessun passo avanti per affrontare, almeno nell’analisi, le ragioni di fondo della disgregazione in corso. Come le élite di “sonnambuli” a ridosso della I Guerra Mondiale, le classi dirigenti europee vanno avanti senza prendere atto dei dati di realtà. Eppure, messaggi chiari sono stati inviati. Come il consenso di segno opposto per Donald Trump e Bernie Sanders, la Brexit al di qua dell’Atlantico indica l’insostenibilità economica, sociale e democratica dell’ordine liberista del capitalismo. Anzi, a guardar bene, la Brexit nel 2016 potrebbe rappresentare per il liberismo reale quello che il crollo del Muro di Berlino ha rappresentato nell’89 per il socialismo reale. L’aggressione all’establishment è massima dove l’establishment, a destra (Reagan e Thatcher) e sinistra (Clinton e Blair), si è più caratterizzato per attuazione dei principi liberisti, dove maggior dosi della medicina hanno determinato maggiore sofferenza per le classi medie.
Ma è estremamente significativo che la portata culturale e economica, oltre che storica, della scelta avvenuta in Gran Bretagna sia colta meglio dagli ambiti di consolidato orientamento liberista che dalle leadership della famiglia socialista europea e dalla pletora di opinion makers progressisti. The Economist, nell’editoriale del numero del 2 Luglio, riconosce l’insostenibilità dell’ordine liberale internazionale e rimprovera alla sinistra la subalternità al liberismo dominante. Il Fondo Monetario Internazionale, in una scia di recenti pubblicazioni (ad es. “Neoliberalism: oversold?”; “The Imf and the crises in Greece, Ireland and Portugal”), registra i fallimenti sul campo e sul piano teorico dell’impianto liberista.
È davvero imbarazzante la povertà di analisi sottostante l’agenda politica, in particolare a sinistra. Eppure, le analisi serie oramai sono largamente diffuse. Da ultimo, un intellettuale autorevole, icona della sinistra radical, certamente insospettabile di simpatie sovraniste e anti-europee, Joseph Stiglitz, ha spiegato in modo approfondito e sorretto da teoria e evidenza empirica l’insostenibilità dell’ordine economico e sociale dell’euro-zona. Nel suo “The Euro. How a common currency threatens the future of Europe”, appena pubblicato, il premio Nobel 2011 per l’economia, ripropone un’analisi consolidata: l’euro è insostenibile in quanto determina dinamiche divergenti tra i paesi partecipanti, genera stagnazione e nel migliore dei casi, grazie a una politica monetaria disperata, equilibri sempre più arretrati di sotto-occupazione. La contrazione o la prolungata anemia dell’economia non è il frutto di incidenti di percorso o di governi nazionali indisciplinati. È la fisiologia del sistema euro in quanto fondato sulla svalutazione del lavoro e sulla marginalizzazione delle classi medie. Il problema non è l’austerità, ma l’impianto dei trattati, la configurazione istituzionale dell’euro e la politica economica export-led praticata con largo consenso bipartisan dal paese leader. Nell’euro-zona abbiamo “costituzionalizzato” un liberismo estremo che neanche i conservatori trionfanti nell’apogeo di Reagan e Thatcher avrebbero osato proporre: lo statuto della Bce da un lato e il fiscal compact dall’altro, nel quadro della svalutazione del lavoro iniziata e praticata in Germania dalle cosiddette “riforme Hartz”, l’atto di gran lunga più anti-europeo compiuto da Berlino nel secondo dopo guerra, oltre che più regressivo per l’universo del lavoro.
In astratto, le soluzioni esistono per orientare in senso pro-labour la moneta unica. Nel testo di Stiglitz se ne ritrova una efficace sintesi: dal completamento della banking union alla ristrutturazione dei debiti pubblici; dall’archiviazione del fiscal compact per finanziare un green new deal all’innalzamento dei salari nei paesi in surplus commerciale. Il primo problema, chiaro al prof Stiglitz ma inavvertito dai nostri spinelliani senza se e senza ma, è l’assenza del consenso minimo richiesto nei contesti nazionali per approvare le correzioni necessarie. Purtroppo, il demos europeo non esiste. Il demos è nazionale e ha caratteristiche specifiche per ragioni culturali, storiche, sociali. La democrazia o è nazionale o non è. Il secondo problema è che le alternative agli aggiustamenti dell’euro sono maledettamente complicate, nonostante Stiglitz le articoli in senso tecnico: il divorzio consensuale per arrivare a un euro del Nord e un euro del Sud d’Europa o l’uscita della Germania e dei suoi satelliti dall’eurozona.
Insomma, un punto dovrebbe essere acquisito dalle classi dirigenti progressiste europee: il varo dell’euro è stato un errore politico di rilevanza storica. Oggi, l’europeismo utile fa i conti, ricorda Stiglitz, con il superamento dell’Euro come condizione necessaria a salvare l’Unione europea. Ma siamo in trappola. In particolare, lo è chi ancora ritiene che il senso della politica sia la costruzione della soggettività sociale e politica del lavoro per rivitalizzare la democrazia e ridurre le disuguaglianze. In tale contesto, per venire all’Italia, lo scontro con Berlino per qualche decimale in più di deficit è ridicolo, come è ridicolo il consueto accapigliarsi nella preparazione della Legge di Stabilità per utilizzare qualche miliardo di euro su un programma di spesa o su taglio delle tasse.
Allora, che fare? Innanzitutto, una lettura fondata della fase. In secondo luogo, un confronto sulle ragioni vere dell’involuzione in corso per arrivare a qualche prima iniziativa strutturalmente utile. Si lasci stare la retorica degli Stati Uniti d’Europa. La revisione dei trattati è impraticabile per le profonde divergenze tra le visioni prevalenti in ciascun demos nazionale. Si lasci anche stare l’invocazione del Ministro del Tesoro dell’Euro-zona: a trattati vigenti, sarebbe ulteriormente regressivo sul piano democratico e recessivo sul versante economico. Si chieda invece al paese leader di innalzare le retribuzioni dei suoi lavoratori e lavoratrici, di invertire in modo significativo la rotta export-led alimentata dalla svalutazione del lavoro. Un miglioramento delle condizioni dei lavoratori e lavoratrici tedesche, segnati da profonde ferite di disuguaglianza al di fuori della cittadella sempre più ristretta e chiusa della aristocrazia operaia delle grandi imprese metalmeccaniche, vuol dire aumentare la domanda interna della Germania e contribuire al miglioramento della bilancia commerciale dei partner dell’eurozona. Vuol dire, quindi, lasciare spazio al rilancio degli investimenti dei paesi della periferia della moneta unica.
Infine, per la nostra Legge di Stabilità si punti al sostegno della domanda interna attraverso il finanziamento di un piano triennale di investimenti pubblici finalizzati all’innovazione ecologica della nostra economia: un piano strategico per la mobilità sostenibile, centrato in primo luogo nelle città; un programma di rigenerazione delle periferie, incluse le abitazioni private; un programma di politica industriale “dirigista” sullo schema di “Industria 2015”; una significativa estensione della misura anti-povertà approvata dal parlamento prima dell’estate. In totale, un punto di Pil all’anno in deficit per un triennio.
Invece, siamo alle solite. Come fossimo negli anni ’90, ritorna puntuale l’invocazione di incentivi al salario di produttività, di larghi tagli al cuneo fiscale, di ulteriore marginalizzazione del contratto nazionale. Insomma, svalutazione del lavoro, in alternativa alla svalutazione della moneta, per ridurre il gap di competitività e puntare, alla domanda interna di qualcun altro. Come tutti gli altri. Quindi, inutilmente. Sonnambuli in fila dietro alla Germania in una spirale suicida per l’Unione europea oltre che per l’euro zona e per il nostro paese.
Dall’huffington post
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