Articolo pubblicato su Humanitè
Il 2016 segna un passaggio storico. Trump negli USA, la Brexit, la valanga di No al referendum costituzionale in Italia il 4 Dicembre sono scosse politiche di magnitudo massima, successive a tante altre scosse: dalla Grecia alla Spagna; dall’Austria, alla Francia, alla Germania, per lasciare fuori dall’analisi le vicende della UE dell’est.
La sequenza di risultati elettorali degli ultimi mesi è per il neo–liberismo reale quello che il crollo del Muro di Berlino è stato per il socialismo reale. Il 2016 e il 1989.
Il messaggio di fondo è chiaro: da un lato, l’insostenibilità per le working class e le classi medie del capitalismo neo-liberista, dei mercati globali di capitali, merci e servizi giocati sulla svalutazione del lavoro; dall’altro, la marginalità della “sinistra storica” europea, socialdemocratica e comunista, oltre che del Partito Democratico in Usa. In una sintesi davvero efficace, The Economist il 10 Novembre scrive: “History is back”, ritorna la Storia, dopo la sbornia ideologica post-89, celebrata da Francis Fukuyama con “La fine della Storia”, il suo best-seller egemonico. Ritorna la Storia, ma la sinistra storica è fuori gioco.
Una faglia attraversa le periferie delle nostre grandi città. Ma i socialisti europei, nelle loro variegate declinazioni legate alle specifiche condizioni nazionali, stanno dalla parte sbagliata: con l’establishment. I popoli delle periferie economiche, sociali e culturali attribuiscono ai socialisti la corresponsabilità del loro declino e impoverimento. Giustamente, perché la sinistra storica è stata orgogliosa protagonista del “mercato interno” senza standard sociali e ambientali e poi della moneta unica senza Stato: errori politici di portata storica, fattori di sistematica svalutazione del lavoro, accentuati dal disinvolto “allargamento” a 28 dell’Unione.
Insomma, la famiglia socialista è fuori gioco perché stata complice, per subalternità culturale, per incapacità, per oggettive difficoltà, per opportunismo, della regressione delle condizioni economiche e sociali del suo popolo. Dopo il secondo conflitto mondiale, ha percorso una lunga parabola: il trentennio glorioso di civilizzazione del capitalismo attraverso i welfare-state; la resistenza all’ascesa del neo-liberismo fino all’89; poi, la resa dell’ultimo quarto di secolo all’Unione neo-liberista europea.
Siamo oggi alla crisi finale? È difficile riconoscere segni di consapevolezza della necessità di una radicale svolta culturale, sociale e programmatica. Sono più promettenti i movimenti e le forze fuori dal circuito della sinistra storica.
Il banco di prova per la debilitata famiglia socialista e i partiti della sinistra europea è la capacità di rimettere in discussione il nesso “nazionale-internazionale”, per riprendere il lessico di Antonio Gramsci: Stato nazionale-euro-Unione europea. Per incominciare a dare risposte al popolo delle periferie economiche e sociali, va innanzitutto preparato un “Piano B” per superare, in via cooperativa e governata, senza uscite unilaterali, l’ordine istituzionale, economico e monetario vigente nell’eurozona. Superare l’euro per rivitalizzare, nella misura possibile, la sovranità democratica a scala nazionale. Cosi, rilegittimare lo Stato come strumento di difesa del lavoro e rilanciare l’Unione europea come cooperazione Stati. Un “Piano B” per ritornare a rappresentare gli interessi del nostro popolo. Ci vediamo a Roma, l’11 e 12 Marzo prossimo per fare qualche passo avanti, in occasione della celebrazione del 60-esimo anniversario dei Trattati di Roma.
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