Articolo pubblicato sull’Huffington Post
Amarissimo risultato nelle elezioni europee, purtroppo largamente atteso. Si accentua l’avanzata delle forze nazionaliste, in linea con quanto emerso alla superficie elettorale a partire dal 23 Giugno 2016 (maggioranza pro-Brexit nel Regno Unito, vittoria di Trump negli Usa, travolgente affermazione anti-establishment nel referendum costituzionale in Italia, arretramenti dei partiti mainstream e successi dei partiti “populisti”, in particolare nazionalisti, in un filotto di elezioni politiche: dalla Germania alla Francia, dall’Italia all’Austria, oltre che a Est).
Alla luce degli esiti del voto in Francia, Italia, Regno Unito e in forme diverse in Germania, per rimanere ai Paesi core, è consolatoria e preoccupante la lettura dei grandi media, soddisfatti perché “i sovranisti non hanno sfondato”.
L’incancrenita grande coalizione alla guida da decenni delle istituzioni Ue perde di gran lunga la maggioranza: si ferma a 76 eletti in meno, senza contare i seggi degli Orban dentro il Ppe, mentre la celebrata ascesa dei Liberali e dei Verdi porta i due gruppi allo stesso numero di seggi raggiunto dai 3 gruppi in cui si articola il fronte Salvini-Le Pen-Kaczyński-Farage.
Arretrano non soltanto le sinistre storiche, dentro e fuori la famiglia socialista europea, ma anche i “populisti” di sinistra, come La France Insoumise di Mèlenchon e Podemos di Iglesias, e i “populisti” presunti post-ideologici, come il nostro M5S. Certo, vi sono eccezioni significative, in Spagna e Portogallo con la “resistenza” dei partiti socialisti, ma il segno prevalente è inequivocabile.
In Italia, la Lega al 34,4% dei voti diventa ancora più nazionale nel consenso, nonostante rimanga secessionista nell’anima. Le causali, le stesse attive nel resto dell’Ue, erano visibili da tempo. Scorriamole in breve.
Innanzitutto, l’inconsistenza ideologica del M5S, utile a raccogliere contraddittoria e rabbiosa sofferenza sociale, ma inibitiva di un progetto politico, non può reggere la prova di governo. Il problema non è Di Maio. Il difetto è strutturale e accomuna tutti i cosiddetti populismi post ideologici alle prese con interessi economici fortissimi e rapidi a salire sulle ruspe identitarie dei Salvini&c.
Poi, insieme, tra i fattori causali c’è l’europeismo liberista del Pd-Siamo Europei +Europa, da un lato e, dall’altro, l’altraeuropeismo autoreferenziale de La Sinistra. “Riformisti” e “radicali” condividono lo stesso impianto no border, iper-sensibile ai diritti civili fino all’individualismo proprietario, ma retorico e completamente astratto, nel migliore dei casi, sulle esigenze materiali e spirituali delle persone: lavoro, sanità, mobilità, identità.
Sono soggetti sociali, culture, linguaggi largamente “stranieri” oltre le ztl, in quanto espressione di classi sociali e interessi economici diversi e distanti dal popolo delle periferie. Vale qui e ora per le sinistre quanto Antonio Gramsci osservava per gli intellettuali italiani e la letteratura popolare:
“Tutto ciò significa che tutta la ‘classe colta’, con la sua attività intellettuale, è staccata dal popolo-nazione, non perché il popolo-nazione non abbia dimostrato e non dimostri di interessarsi a questa attività in tutti i suoi gradi, ….., ma perché l’elemento intellettuale indigeno è più straniero degli stranieri di fronte al popolo-nazione. La quistione non è nata oggi: essa si è posta fin dalla fondazione dello Stato italiano”.
In tale quadro, dove il M5S perde oltre 6 milioni di voti ma aumenta, a quantità invertite, il consenso totale espresso ai partiti di governo nonostante un incessante bombardamento mediatico e un contesto economico sempre più complicato, è incomprensibile la soddisfazione dal Nazareno per un numero di voti inferiore al 2018, alleati potenziali ampiamente sotto soglia e la perdita dell’ultima Regione governata al Nord.
Siamo ad un passaggio di fase storica, ovunque nella Ue e non solo. È il “momento Polanyi”, come dopo il collasso della globalizzazione a cavallo degli anni ’20 del secolo scorso: l’ordine liberista, feroce nel mercato unico europeo e ancor di più nell’eurozona, è insostenibile per le classi medie, oltre che per le fasce popolari, quindi irrompe una domanda di protezione sociale e identitaria, di legami di comunità per arginare la solitudine, per difendersi dal dominio dei mercati “liberi” e onnipotenti, fattore di precarizzazione della vita, di mercificazione di ogni relazione umana, di smarrimento morale.
È un dato strutturale di fase, non prodotto artificiale e effimero dell’abile offensiva finanziaria e social di Steve Bannon e marionette locali. Il ritorno, in forme inedite, del “momento Polanyi” trova (per ora?) soltanto le offerte regressive delle destre nazionaliste. I Roosevelt, i Keynes, i Gramsci, ma anche i Lenin, non sono ancora visibili per interpretare la sfida di fase in un quadro nazionale-popolare democratico e progressivo.
L’egemonia neo-liberista ha penetrato così a fondo nelle sinistre storiche e ha utilizzato in modo così efficace le culture libertarie, cosmopolite e anti-Stato di derivazione sessantottina da erigere un muro di ostilità morale e intellettuale alla ricucitura, attraverso lo Stato democratico, di nazione e popolo nel quadro della Costituzione del ’48.
Data la profondità dei problemi di fronte a noi, sarebbe utile trattenere gli istintivi richiami unitari nel campo travolto delle sinistre: gli stanchi rituali di assemblaggio di ceto politico, mascherati dall’appello alla mitica società civile riconosciuta superiore per qualità morali e spessore culturale, aggravano lo scenario.
Invece, va prima di tutto promosso e condiviso un radicale cambio di paradigma. L’anti-salvinismo e i presidi anti-fascisti contro “forze nuove” dello zero virgola zero alimentano la deriva in corso e astraggono ancora di più dalle sofferenze quotidiane delle periferie.
In assenza di un’interpretazione progressiva della fase, la prospettiva più probabile è chiara: a Bruxelles, una grande coalizione salvata dall’ingresso di Liberali e Verdi per confermare l’assetto mercantilista in essere, la causa fondamentale della svalutazione del lavoro e della connessa deriva nazionalista, e per assecondare la torsione cristiana-conservatrice verso la chiusura delle frontiere esterne. In Italia, il consolidamento della Lega armata di crocifisso.
Per riconquistare la rappresentanza delle fasce sociali più in difficoltà, è necessaria una svolta “nazionale-popolare” e keynesiana. Non vuol dire anti-europea o No-euro, isolazionista o finanche autarchica.
Vuol dire internazionalista e di cooperazione europea intergovernativa, tra Stati nazionali. Vuol dire consapevole che il celebrato “sogno federalista” è sempre stato e rimane fuori dalla dimensione storico-politica, culturale e linguistica della realtà e che la democrazia transnazionale è impraticabile perché priva, alla radice, di un popolo europeo. Proviamo a ripartire da qui.
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