Articolo pubblicato sull’Huffington post
Le autostrade sono un monopolio naturale. Vuol dire che non esiste concorrenza “nel mercato”: nello sciagurato esempio del Ponte Morandi a Genova, non vi era un’autostrada alternativa alla A10 da utilizzare e così mettere in competizione Atlantia e un altro gestore. In tale quadro, la scuola liberista ha codificato la cosiddetta concorrenza “per il mercato”: il mercato non c’è, ma lo approssimiamo con la regolazione pubblica: gara per la concessione di un bene pubblico e controllo indipendente sulla gestione, preferibilmente attraverso un’Agenzia ad hoc. Interessi economici fortissimi e una politica ancillare e senza più autonomia culturale hanno realizzato il modello, in cima alla lista delle “riforme strutturali” raccomandate dal Washington e dal Bruxelles Consensus, presentato come necessario a marginalizzare istituzioni pubbliche, sempre carrozzoni, e politici, sempre corrotti e comunque moralmente minorati in relazione agli integerrimi signori del mercato.
Dopo oltre un trentennio di esperienza, i risultati sono univoci. La gestione privata ha determinato e determina, ovunque, senza eccezioni, aumento delle tariffe, investimenti minimi e mega rendite ai privati. Chi si oppone alle revoche, come Italia Viva (ancora oggi, su Il Messaggero, il sen Matteo Renzi), dovrebbe leggersi la documentatissima Deliberazione della Corte dei Conti del 18 Dicembre scorso. In particolare, dovrebbe studiare il Capitolo IV paragrafo 3: “Le clausole di favore delle concessioni”, invocate proprio da chi dovrebbe difendere l’interesse pubblico per giustificare lo status quo o gli indennizzi da oltre 20 miliardi ai Benetton. Inoltre, dovrebbe dare un occhiata alle tabelle. Scoprirebbe, ad esempio che, dal 2012 al 2017, grazie all’aumento delle tariffe (salite del 14% rispetto a un’inflazione a zero) e al dimezzamento degli investimenti annui (-54%, da 2,063 miliardi a meno di un miliardo), l’utile netto dei rentier nostrani (i soci di Atlantia in primis) è schizzato del 55% fino ad arrivare 1,6 miliardi nel 2017, con una media annua del +10%. Un risultato straordinario, tanto più in una fase di recessione-stagnazione, durante la quale nessun settore dell’economia legale ha raggiunto tali vette senza alcun rischio.
Di fronte a tali dati, la controffensiva della cultura liberista, ben rappresentata nei media padronali, e dei diretti beneficiari è facile: il modello è impeccabile, è colpa dello Stato che non ha saputo controllare. Si omette un punto essenziale. Chi non riesce a gestire, non riesce neanche a controllare. Per poter garantire controlli adeguati, servirebbero risorse economiche e professionali enormi e una capacità manageriale e una resistenza alle pressioni private non inferiore a quanto richiesto per una gestione diretta efficiente. Ma qui arriva la domanda: perché le amministrazioni pubbliche, una volta attrezzatesi per poter svolgere tale sofisticata funzione di controllo, dovrebbero privarsi della gestione diretta a vantaggio dell’interesse pubblico?
La ri-nazionalizzazione delle gestioni autostradali è un atto dovuto, come lo sarebbe quella degli altri monopoli naturali, a cominciare dagli aeroporti di Fiumicino e Ciampino, altre due galline dalle uova d’oro, guarda caso sempre in mano agli stessi imprenditori-monopolisti-predatori. In sintesi, la norma inserita nel Decreto Milleproroghe non ha nulla di demagogico, né populista. Certo, può essere raccontato come un risarcimento morale per le vittime. Ma è soltanto un primo passo, assolutamente insufficiente: è la gestione privata che va eliminata a meno di non voler continuare a nutrire interessi fortissimi a scapito dell’interesse pubblico, con il paravento di presunti diritti acquisiti, in realtà immorali privilegi, ossia truffe legalizzate a danno dei cittadini.
Caro sen Renzi, non sono le revoche delle concessioni autostradali, è la mancanza di coraggio politico a ricostruire una adeguata funzione dello Stato che fa perdere credibilità all’Italia. È la subalternità della politica che blocca il nostro Paese.
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